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Quando non c’è niente di smart forse è l’ora della saggezza

Negli scorsi mesi lo smart working si è imposto in Italia, innanzitutto come esperienza possibile e, in seconda battuta, come tema di dibattito a vari livelli. Stiamo scoprendo insieme, giorno per giorno, tutte le diramazioni che l’impatto che questo fenomeno può avere, a partire dal livello personale e sociale, fino ad arrivare a quello organizzativo, politico e ambientale.

 

Con i colleghi di Peoplerise ci siamo da subito interessati all’argomento. Come vi abbiamo raccontato, durante il lockdown abbiamo sperimentato una metodologia chiamata Reinventing Lab, pensata per favorire sviluppo e innovazione. In questa occasione, abbiamo inaugurato un laboratorio di ricerca e azione sul tema smart working e, in particolare, su come essere Smart with heart. Mi piacerebbe raccontarvi qualcosa di quello che abbiamo scoperto.

 

Ma prima facciamo un po’ d’ordine. L’Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano definisce così lo smart working:

 

“Lo Smart Working è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”

 

Il lavoro da remoto non è Smart Working

 

Nel buio tutti i gatti sono grigi. Poi, quando la vista si abitua, si cominciano a discernere i colori. Quando infine si accende la torcia, ecco che la realtà torna brillante nelle sue sfumature!

 

Ecco. Più o meno lo stessa cosa è successa con lo smart working. Per alcuni di noi, costretti per la prima volta al lavoro da remoto, la portata della novità è stata tale da abbagliare la vista. Un po’ come se fossimo al buio, ci siamo guardati attorno disorientati e, un po’ alla volta, abbiamo provato ad accendere una luce e a dare forma e colore alle cose.

 

Giorno dopo giorno abbiamo scoperto modi di lavorare che non credevamo possibili. Abbiamo chiuso gli occhi, ci siamo tappati il naso e ci siamo tuffati nell’azzurro mare del digitale. Un mare che prima sembrava così lontano dal nostro mondo personale e, ancora più, da quello della nostra organizzazione.

 

Per molti il lavoro da remoto è stata un’occasione per scoprire e apprezzare nuove forme di autonomia, tempi e spazi ritrovati, ritmi nuovi. C’è chi a tornare in ufficio non ci pensa neanche.

 

Allo stesso modo però, abbiamo sperimentato anche che lavorare da casa non è necessariamente smart. Non c’è niente di smart nei ritmi serrati che abbiamo sostenuto quando tra una riunione e l’altra non c’era neanche il tempo di bere un goccio d’acqua. Non c’è niente di smart in certe giornate lavorative infinite, dove neanche i confini fisici dell’ufficio, ormai svaniti, ci possono aiutare a “non portare il lavoro a casa”. E non c’è niente di smart neppure nella gestione di team sfilacciati e demotivati, che faticano a trovare un senso a quello che sta succedendo.

Photo by Arsalan Noorafkan on Unsplash

Non sarebbe saggio il Wise Working?

 

Lo smart working si afferma come una filosofia organizzativa che valorizza l’autonomia e la responsabilizzazione sui risultati. Vengono promossi empowerment e flessibilità, nella speranza che alimentino, a loro volta, motivazione e engagement. Su questa nuova musica danzano monitoraggio, delega e auto organizzazione che, alternandosi e cedendosi il passo a vicenda, si muovono su territori inesplorati, alla ricerca di un nuovo delicato equilibrio.

 

Quello di cui ci siamo accorti nei dialoghi con i nostri clienti, soprattutto con chi di loro si trovava a sperimentare il lavoro da remoto in modo obbligato, è che per garantire che il lavoro sia davvero smart occorre un cambio di paradigma profondo, che radichi nuove abitudini e comportamenti in valori e sentimenti forti e condivisi.

 

Ci viene quindi in aiuto la nozione di Wise Working, perchè solo una trasformazione saggia, che si interroga sul senso profondo del lavoro può portare a frutti sani e duraturi. 

 

Un approccio wise al lavoro adotta una prospettiva sistemica, che riconosce l’interdipendenza di tutti gli stakeholder e riconosce come parimenti importanti le esperienze e esigenze personali, organizzative, sociali e ambientali.

 

Un modello integrale per una prospettiva a 360°

 

Per fare questo abbiamo trovato particolarmente utile il modello a quattro quadranti, suggerito dall’Integral Coaching, che promuove una visione sistemica dell’organizzazione e prende in considerazione l’esperienza lavorativa a 360°. Il punto di vista individuale e quello collettivo si integrano in una doppia matrice, che evidenzia sia i vissuti individuali che le azioni concrete che questi vissuti canalizzano.

Durante il nostro laboratorio sullo smart working abbiamo pensato di integrarlo e riproporlo in questo modo:

Troppo spesso, nelle iniziative di implementazione e supporto allo smart working, si rischia di adottare una prospettiva parziale, che si focalizza sul problema emergente, a discapito di una prospettiva sistemica. 

E così troviamo progetti che investono nella digitalizzazione, acquistando hardware e software senza preoccuparsi di quanto gli individui siano pronti ad un cambiamento di questo tipo. Oppure, al contrario, interventi che promuovono cambiamenti profondi a livello culturale che non sono supportati da aspetti strutturali, fattuali e logistici. 

Un approccio integrale ci aiuta ad agire con saggezza, a non perdere pezzi importanti e fare luce sulla nostra zona cieca, quella dove a volte è più difficile guardare.

CHE NE PENSI? COSA SIGNIFICA LAVORARE CON SAGGEZZA PER TE?

 

 

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